I cavalli di Don Henricus
Il XVI secolo, complesso, tormentato, caratterizzato da profonde lacerazioni, conflitti militari e ideologici ma anche da fulgore culturale ed artistico, si profila come età del ferro e, insieme, dell’oro.
L’Italia fu terreno di battaglie, saccheggi, scorribande che coinvolsero, su fronti opposti, due grandi potenze, la Francia e la Spagna, per la contesa di Milano e Napoli.
Sul soglio pontificio, Giulio II, Leone X - i papi mecenati di Raffaello e Michelangelo, l’oro dell’arte italiana -, Clemente VII e i loro successori si destreggiarono come potevano in una complicata serie di intrighi diplomatici e militari, mentre irruppero sulla scena i due protagonisti del secolo, ancora giovanissimi ma incredibilmente ambiziosi: Francesco I d’Angoulême e Carlo V d’Asburgo.
Lutero, nel 1517, affisse a Wittemberg le sue 95 tesi e il movimento della Riforma si estese rapidamente in Europa; il ferro dei lanzichenecchi e dei mercenari protestanti, assoldati da Carlo V, invase la Città Eterna nel 1527, un Sacco che si protrasse per mesi e che decimò la popolazione.
Partecipe di questi avvenimenti fu Enrico Pandone, nato nel 1494, da Carlo - conte di Venafro - e dalla nobile Ippolita d’Aragona. La sua famiglia, originaria di Capua, forse con radici longobarde, dal 1443 dominava su gran parte dell’attuale Molise.
Alla morte prematura del padre ne divenne, ancora minorenne, erede universale (con la tutela della madre e degli zii, in particolar modo di Silvio Pandone, vescovo della diocesi di Bojano).
Personalità forte, inquieta, controversa, frequentò ambienti culturali e noti esponenti dell'aristocrazia partenopea (famiglie Caracciolo e Pignatelli). A vent'anni si unì in matrimonio con Caterina Acquaviva; la fastosa cerimonia si svolse a Napoli, nel palazzo del suocero, duca d'Atri.
Nel 1525 lo scozzese Giovanni Stuart, duca d’Albania, alleato dei francesi, si spinse fino alle porte di Roma ove, però, fu fermato; tra i numerosi cavalieri e i 6000 fanti che ne arrestarono la marcia c’era, forse al suo battesimo del fuoco, anche il giovane Enrico che guadagnò fama di guerriero e riconoscenza imperiale. Infatti Carlo V, da Toledo, con diploma datato 16 novembre, lo insignì del titolo di «dux et duces Boyani» (duca di Bojano); ciò non valse a conquistare la sua fedeltà: nel successivo conflitto si schierò, inaspettatamente, dalla parte del nemico.
Nel 1528, i Francesi, con un esercito al comando di Odet de Foix, visconte di Lautrec, riuscirono ad assediare la città di Napoli e scorazzarono indisturbati per le varie province del regno.
Dopo la vittoria degli Spagnoli, i numerosi signori che avevano stretto alleanza con gli invasori, tra cui Enrico Pandone, subirono la ritorsione del nuovo viceré di Napoli, Filippo d’Orange. Molti rappresentanti di famiglie nobili furono giustiziati, altri esiliati, altri ancora privati di gran parte delle loro terre. Si voleva infliggere un duro colpo all’antica feudalità filofrancese, a quella fazione angioina che si era sollevata.
Carlo V decise di istituire un’apposita commissione, con a capo il vescovo di Burgos, per condurre i processi contro i ribelli e per redigere un minuzioso elenco dei loro possedimenti.
- L’imperatore Carlo V a cavallo, in un ritratto di Tiziano -
Enrico Pandone fu catturato a Venafro, dove, in procinto di fuggire nello Stato Pontificio, si era fermato per salutare la moglie; venne processato, condannato e decapitato - con un particolare strumento di esecuzione, che anticipava di oltre due secoli la ghigliottina - nel dicembre del 1528, su un patibolo eretto in largo del Castelnuovo (attuale piazza Municipio) a Napoli.
Un documento del 1531 - conservato in Spagna presso: Archivo General di Simancas (Valladolid) - relativo all’indagine fiscale voluta dall’imperatore, riporta una interessantissima descrizione dei suoi beni, in particolare delle città di Benafra (Venafro) e Boyano, e dei territori circostanti.
Si tratta di "apprezzi" precisi e compendiosi che ci forniscono, pur senza l’ausilio di mezzi grafici, una accurata rappresentazione dei luoghi nella prima metà del Cinquecento.
- Castello di Venafro -
A Venafro, ove risiedeva, Enrico aveva apportato adattamenti al castello per renderlo più sicuro ma anche, e soprattutto, più bello, trasformandolo in un vero palazzo; aveva fatto realizzare un loggiato a occidente, un ameno giardino a oriente e affrescare il piano nobile e lo scalone principale con immagini di cavalli, un ciclo pittorico raro nel panorama artistico italiano: una collezione di magnifici esemplari, alcuni fermi, altri al galoppo, come appena usciti dalle scuderie.
Appare evidente che l’equitazione avesse avuto ampio spazio nella sua educazione e che gran parte della sua vita quotidiana fosse dedicata all’allevamento di razze pregiate.
- Cavalli affrescati in una sala del castello -
La fortezza venafrana, fino a qualche decennio fa, era un edificio devastato dal degrado; un’accurata opera di ripulitura e restauro ha reso, oggi, perfettamente leggibili una ventina di cavalli a grandezza naturale (dieci recuperati quasi integralmente), dotati di sella e bardati con raffinati finimenti.
Alcuni presentano un marchio: un quadrato a cui si sovrappone un rombo dotato di una piccola croce sul vertice e di una grande H al centro, l’iniziale di Henricus.
- Marchio di Enrico Pandone (evidenziato con il tratteggio) -
Per ognuno un’iscrizione - eseguita a secco, con colori a tempera - ricorda: nome, razza, caratteristiche, età e anno della raffigurazione; l’ultima è del 30 aprile 1527. Possiamo, dunque, sapere quali erano rimasti nelle scuderie per la riproduzione e quali erano stati, invece, venduti o donati; ad esempio, il «Liardo San George», con bardatura di velluto, fu inviato all’imperatore («Maestà Cesarea») Carlo V nell’ottobre 1522.
- Sagoma di stucco (evidenziata con le frecce) -
Lo sconosciuto ed abile artefice, per esaltare l’effetto volumetrico, ha adottato una tecnica particolare: dapprima, realizzò sull’intonaco sagome di stucco leggermente in rilievo e, poi, con i colori dati a fresco, dipinse le figure.
Tra tutti i tipi di decorazione parietale l’affresco è il migliore e il più duraturo; la calce grassa spenta (idrato di calcio) dell’intonaco ancora umido, combinandosi con i gas carboniosi dell’aria (anidride carbonica) si trasforma in carbonato di calcio, formando una sorta di pellicola cristallina, una superficie compatta di consistenza marmorea che fissa i colori e li protegge dall’umidità.
L’uso dello stucco è presente fin dalle civiltà più remote: si trova a Cnosso, in Egitto, nell’oriente ellenistico, nell’area etrusca e nell’arte romana. Da ornamento architettonico, dopo il XII secolo, passò ad assolvere una funzione complementare nell’ambito della pittura e della scultura; in questo caso la lavorazione divenne particolarmente laboriosa poiché esigeva una pasta (ottenuta amalgamando calce, polvere di marmo o gesso, sabbia lavata e caseina) molto fine, atta a ricevere il colore.
Lo stucco «da rilevare» come ci riferisce Cennino Cennini nel Libro dell’Arte (un manuale compilato alla fine del Trecento) serviva per modellare le parti in aggetto, aureole, medaglioni, foglie; per creare l’illusione di una maggiore corposità, il dipinto veniva, dunque, eseguito sopra un leggero bassorilievo, utilizzando colori terrosi o di pietre macinate, che resistono all’azione caustica della calce.
- Cavallo affrescato in una sala del castello -
Con la morte di Enrico, e con la confisca dei suoi beni, scomparve dalla scena feudale di Venafro la stirpe dei Pandone che vi aveva dominato per novantuno anni (il trisavolo Francesco era diventato conte di Venafro nel 1437).
Il palazzo avito di Napoli - sito «a Sancto Petro a Mayella», nell’attuale piazza Bellini -, il ducato di Bojano e numerose altre terre furono concesse a Gerolamo Morone, fautore di parte spagnola, che aveva svolto un ruolo rilevante nel processo di condanna; la città di Venafro fu dapprima venduta a Giovanni Colonna per diecimila ducati e poi, confiscata a quest’ultimo, donata alla vedova del viceré Carlo Lannoy, Maria Mombel.
La moglie di Enrico, Caterina Acquaviva, appena trentenne, lo seguì nella tomba tre anni dopo; la suocera Ippolita d’Aragona fece erigere un sepolcro, in cui furono raccolti i resti dei due congiunti, nella chiesa di Santa Maria la Nova a Napoli. L’epigrafe obituaria, a ricordo dei coniugi Pandone, fu, poi, trasferita nel chiostro dell’annesso convento dei Frati Minori, dove, successivamente, andò perduta.
A perenne memoria dell’audace e sfortunato Don Henricus Pannonus (o Pandonus) de Aragonia, travolto dalle tumultuose vicende del tempo, restano, ancora vividi, i suoi splendidi cavalli, affrescati sulle pareti del castello di Venafro...
Alessandro Cimmino
Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Disegni, elaborazioni grafiche e foto, ove non specificato, sono dell'autore.
Articolo pubblicato sul mensile "Il Ponte", a. XXI, n. 3, marzo 2009, pp. 42-43.