Il santuario dimenticato

 

Nell’attuale zona archeologica di Pietrabbondante, denominata “Calcatello”, furono rinvenuti, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, numerosi oggetti che destarono curiosità ed interesse tra la gente del posto e dei paesi vicini.

La notizia giunse ad alcuni studiosi che si recarono a visitare il luogo; tra questi, nel 1846, il notissimo archeologo tedesco Theodor Mommsen. Egli, sulla base di una interpretazione data ad un’iscrizione in lingua osca, identificò Pietrabbondante con la capitale dei Sanniti-Pentri: Bovianum Vetus.

Il governo borbonico, nel 1857, finanziò degli scavi che, con fasi alterne, si protrassero anche dopo l’unità d’Italia, fino al 1913, riportando alla luce i ruderi del tempio minore (convenzionalmente definito A) e del teatro.

- Pietrabbondante, area archeologica -

Ma fu solo nel 1959 che si intraprese una campagna vera e propria, con rigorosi metodi scientifici, sotto la direzione di Adriano La Regina, allora Ispettore presso le Antichità dell’Abruzzo e Molise: si scoprì il tempio maggiore (convenzionalmente definito B) e, cosa importantissima per l’indagine storica, si asportò il terreno nelle aree circostanti al teatro e ai due templi.

Quest’ultima operazione permise di confutare la tesi allora imperante circa l’identità di Pietrabbondante con Bovianum Vetus e di avanzare l’ipotesi che non si trattasse di una città ma che tutto il complesso architettonico fosse un grandioso, monumentale santuario.

La religione dei Sanniti era politeista ed i primi luoghi di culto furono caverne, boschi, fiumi nei quali si fosse manifestata, in qualche modo, la presenza divina (teofania). In seguito vennero attrezzate aree delimitate fisicamente - recinti sacri che rispettavano precise forme e dimensioni - ove si svolgevano i riti. Si può parlare di architetture dedicate al culto, di templi destinati ad ospitare l’effige della divinità e di edifici connessi, solo a partire dal IV secolo a.C.

Il santuario federale di Pietrabbondante era, sicuramente, il più importante di tutto il Sannio Pentro (che doveva annoverarne diversi, a giudicare dai ruderi rinvenuti a Campochiaro, San Giovanni in Galdo, Vastogirardi e Schiavi d’Abruzzo), un centro religioso e politico in cui convenivano le popolazioni ed i Meddices Tutici (magistrati supremi) per cerimonie, assemblee e concili, un monumento simbolico che mirava ad affermare la potenza della nazione sannitica nei confronti dei Romani.

Tra i compiti svolti dal Meddix Tuticus, eletto tra gli aristocratici con un mandato di un anno, vi era quello di programmare, finanziare, realizzare e curare l’edilizia dei santuari; egli faceva imprimere il suo nome sulle tegole e sui tegoloni di copertura degli edifici (ne sono stati rinvenuti diversi nei santuari delle località sopra citate) che faceva costruire.

Tutto quello che sappiamo delle rovine di Pietrabbondante, poste a circa 960 metri di altitudine, su un fianco del monte Saraceno, è frutto degli scavi compiuti; nessuna fonte letteraria, epigrafica o iconografica è riconducibile a questo luogo, non conosciamo neppure la sua antica denominazione.

Le prospezioni archeologiche hanno rilevato diverse fasi edilizie che vanno dal V al I secolo a.C, alcune attestate solo dalla presenza di materiali ma non dal permanere delle strutture.

Sul sito attualmente occupato dal teatro era in principio collocato un recinto sacro (un’area quadrata di circa 55 metri per lato); successivamente, nel III secolo, venne eretto un tempio di raffinata architettura in stile ionico, saccheggiato e distrutto da Annibale (dopo la battaglia del lago Trasimeno, 217 a.C.) che intese così punire i Sanniti Pentri, in quel frangente alleati con Roma.

L’importanza sacrale dei luoghi venne riconfermata alcuni decenni dopo con la costruzione del tempio piccolo e, in seguito, del poderoso complesso teatro-tempio grande.

- Tempio A (ricostruzione virtuale Capware) -

Il tempio minore A (m 12,20 x 17,70, in un’area scavata di m 18 x 27,5), in cattivo stato di conservazione, risale al principio del II secolo a.C. ed è il più antico degli edifici rinvenuti; posto su un podio (elevato m 1,65) mostrava una cella (naós) preceduta da un vestibolo delimitato sulla fronte da quattro colonne (pronao tetrastilo) e su ciascun fianco da due colonne.

Due ingressi laterali permettevano di accedere all’atrio e quindi alla cella (m 9 x 11,50) ove era collocato il simulacro di una divinità di cui, oggi, non conosciamo il nome.

Nelle vicinanze sono venuti alla luce parte del fregio dorico che correva sopra l’architrave e parte del cornicione con protomi leonine oltre a numerose armi e tre elmi attualmente conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Un porticato lungo 48 metri, occupato verosimilmente da botteghe a schiera e ambienti di servizio, collegava il tempio piccolo agli altri monumenti.

- Complesso teatro-tempio B (rielaborazione su grafica Capware) -

Il complesso teatro-tempio grande, rispondente ad un progetto unitario, venne messo in opera tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., occupando l’area delle costruzioni, ormai ridotte in rovine, del III secolo. Tale schema architettonico non è raro e possiamo trovarlo in diversi altri santuari italici di età ellenistica (Cagliari, Tivoli, Gabi, Palestrina).

Il tempio maggiore B (m 22 x 35) è situato su un alto podio (m 3,55); salendo la scalinata centrale, formata da quattordici scalini, si accedeva al pronao sostenuto da otto colonne: quattro sulla fronte, una per ciascun fianco e due in antis (davanti alla porta principale della cella). Queste, di tipo corinzio, erano forse tinteggiate con rosso sul fusto e con marrone sulla base - si sono trovate tracce di questi colori - e raggiungevano un’altezza presumibile di ben 12 metri.

La cella presentava tre ambienti separati, di cui quello centrale più grande, muniti di porte; la pavimentazione era in mosaico di colore bianco, privo di decori.

Al di sopra delle colonne correva un fregio di tipo dorico sovrastato da una cornice piuttosto aggettante; il tetto era coperto da tegole e coppi di varie misure.

Una lamina in bronzo, qui rinvenuta, con dedica alla Vittoria porta a presumere che il tempio fosse intitolato proprio a questa dea.

La data di costruzione - compresa tra il 100 e il 90 a.C. - si può ricavare da un’iscrizione osca incisa sul fianco sinistro del podio: ricorda il magistrato G. Stazio Claro (Staatiis Klar) - ricco, di stirpe illustre, noto per la sua partecipazione alla guerra sociale, poi fedele a Silla e senatore romano - che lo fece costruire, in parte a sue spese.

Ai lati del tempio si svolgevano due porticati continui che immettevano in ambienti, connessi al culto o al commercio, di dimensioni diverse.

- Teatro, scorcio della cavea -

Il teatro, realizzato con calcare duro, è in buon stato di conservazione. Adotta un modello allora piuttosto diffuso in Italia meridionale, simile a quello dei teatri di Sarno e Pompei; utilizza nella plastica lo stile ellenistico, molto ammirato ed imitato anche dai Romani, e si compone essenzialmente di due parti: cavea ed edificio scenico.

- Teatro, telamone di destra -

La cavea, parzialmente scavata nel pendio, è limitata da poderosi muri in opera poligonale, che si concludono, sul lato interno, con telamoni inginocchiati (le braccia sollevate fanno presumere che sorreggessero altri elementi decorativi). Presenta tre ordini di gradini: il primo dal basso, ima cavea, è formato da tre file di sedili in pietra, dotati di schienale sagomato, ciascuna chiusa alle estremità da terminali scolpiti a forma di grifone (ne rimangono in sito quattro e il frammento di un quinto, tutti privi delle teste forse andate perdute); il secondo, media cavea, si compone di due file di sedili senza spalliera, sempre in pietra, ed è suddiviso in sei settori mediante cinque brevi scalinate; il terzo, summa cavea, oggi ricoperto dal manto erboso, era un tempo occupato da panche in legno.

- Teatro, ruderi dell’edifico scenico -

Dell’edificio scenico (m 37,3 x 10,20) rimane molto poco, sufficiente, però, per ricostruirne l’aspetto: il palco (pulpitum), alto circa 2 metri e profondo 4,15, presentava sul muro di fondo (frons scaenae) tre porte, fiancheggiate da semicolonne ioniche e cornici sagomate (come nei teatri di Epidauro e Priene), che permettevano di raggiungere sia sei piccoli ambienti (ognuna conduceva a due camerini) destinati agli attori e a coloro che officiavano i culti o presiedevano le assemblee, sia l’esterno del teatro. In dieci blocchi forati, posti a filo della fronte interna e ancora ben visibili, venivano alloggiati, all’occorrenza, altrettanti pali lignei che consentivano di sostenere fondali dipinti.

- Teatro, arco che immette alla ima cavea -

Il teatro presentava diversi accessi: due nella parte bassa che, passando sotto archi monumentali, immettevano nell’iposcenio e nella platea semicircolare non pavimentata (orchéstra, originariamente destinata dai Greci alle evoluzioni del coro) e consentivano di prendere subito posto nella ima cavea o, salendo delle scale con gradini concentrici, di giungere in un corridoio lastricato (praecinctio) e, quindi, nella media cavea; tre nella parte alta, uno centrale e due laterali, che immettevano direttamente nella summa cavea; tre più piccoli, posti dietro l’edificio scenico, riservati agli attori e agli addetti ai camerini e al palcoscenico.

Il santuario ebbe tuttavia vita breve, le attività cessarono in età augustea ed i culti vennero trasferiti in altra sede, probabilmente nella vicina Terventum. L’area, semisepolta già nel II secolo, fu utilizzata come necropoli nel III (sono state rinvenute una dozzina di tombe con corredo molto povero).

Nel Medioevo, a poca distanza, attorno a tre imponenti rocce (“morge”) incominciò a sorgere un piccolo impianto urbano e il “Calcatello” divenne una sorta di cava di pietre come testimoniano i grossi blocchi ed i numerosi elementi decorativi di spoglio che si possono osservare sui muri di alcune abitazioni e della chiesa di Pietrabbondante.

Mancano oggi gli elevati di tutti i fabbricati (dipinti di bianco - per simulare il marmo - o di vivaci colori), le decorazioni, le metope, i rilievi dei frontoni che, sicuramente, creavano effetti plastici e pittorici di straordinario impatto emotivo.

- Teatro-tempio B, veduta generale con il monte Saraceno sullo sfondo -

Ma ciò che resta di questo santuario senza nome, tornato dall’oblio del tempo, ci parla di ieri, di quando duemila anni fa il luogo era affollato di pellegrini giunti da tutto il Sannio, con ogni mezzo: a cavallo, a dorso di mulo, sui carri, a piedi, percorrendo strade aspre in territori impervi.

Pellegrini che pregavano, portavano ex voto, compravano materiali per le offerte e vettovaglie nelle botteghe ma anche condottieri, politici affaccendati nel preparare discorsi, proporre alleanze, studiare leggi, preparare complotti. Un mondo rumoroso e colorato inimmaginabile a chi visita oggi le silenziose rovine inserite scenograficamente nel paesaggio...

                                                                                                                                                                                           Alessandro Cimmino


Con preghiera di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo per motivi di studio. Disegni, elaborazioni grafiche e foto, ove non specificato, sono dell'autore.

Articolo pubblicato sul mensile "Il Ponte", a. XXII, n. 3, marzo 2010, pp. 37-39.